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La MASERATI e la sindrome di STENDHAL

Lo scrittore francese Marie-Henri Beyle, pseudonimo di Stendhal, è autore di innumerevoli romanzi i più noti dei quali sono certamente Il rosso e il nero e La Certosa di Parma.

Nel suo romanzo “Rome, Naples et Florence” pubblicato nel 1817, l’Autore racconta che  durante una visita alla basilica di Santa Croce a Firenze, fu colto da una intima crisi i cui effetti si attenuarono prima e scomparvero poi solo dopo che uscì all’aperto.

Tale malessere denominato “Sindrome di Stendhal” proprio perché lo scrittore per primo ne descrisse i sintomi, consiste in una patologia psicosomatica che si manifesta dinanzi ad un’opera d’arte che turbi profondamente.

Dal punto di vista fisico i sintomi sono dati da una diffusa sensazione di malessere, da difficoltà respiratorie che possono anche condurre ad una perdita dei sensi, mentre dal punto di vista psichico comportano un senso di irrealtà, come vivere in un sogno.

Questa premessa è necessaria per comprendere appieno ciò che mi capitò tanti anni fa.

Avevo 14 anni e non conoscevo certamente questa sindrome, quando, nel ritornare a casa a piedi, come facevo sempre per risparmiare il denaro che i miei genitori mi davano per pagare il biglietto dell’autobus, non perché fossi parsimonioso, ma perché conservavo quei pochi spiccioli per poter fare qualche giro sull’otto volante (1), in lontananza, notai con stupore un’immensa auto gialla:  malgrado fossi un divoratore di Quattroruote, vuoi per la distanza e vuoi perché allora le strade erano piene di Fiat 600 e 500, qualche rara Alfa Romeo e qualche ancora più rara Lancia non riuscii subito ad identificarla.

(1) Per i più giovani: al Foro Italico di Palermo, esisteva un luna park con una miriade di giochi ma l’unico gioco che destava il mio interesse era  l’otto volante dove avevo la possibilità di guidare delle piccole Giuliette Spider di colore rosso, con robusti paraurti in metallo lungo un percorso con la forma di un otto, gareggiando con altri.

Mano a mano che mi avvicinavo quella che prima era una sagoma indistinta, si rivelò essere una meravigliosa Maserati Ghibli.

Avevo visto quella macchina solo in foto e trovarmela di fronte mi diede quasi una sensazione di ebbrezza.

L’auto era parcheggiata nel controviale di Via Marchese di Villabianca davanti al (allora recente) lugubre edificio sede dell’Enel e con la sua superba presenza sembrava che, come per incanto, avesse fatto dissolvere tutto ciò che la circondava.

Appena le fui accanto ricordo che mi colpì, per prima cosa, lo smisurato cofano motore: pensai che la Fiat 600 di mio padre forse era più corta del solo cofano. Quindi cominciai a girarle attorno quasi con timore, senza nemmeno sfiorarla.

Mi sbalordirono la ridottissima altezza, la purezza della linea (solo molti anni dopo scoprii che era stata disegnata da Giorgetto Giugiaro a quel tempo giovane designer della Ghia) i fari a scomparsa, le grandi prese d’aria laterali, il tridente che risaltava sulla nera griglia anteriore ed infine la scritta MASERATI GHIBLI sulla coda.

Quindi passai ad ammirarne l’interno. La strumentazione composta da ben sette elementi circolari a confronto della 600 che ne aveva uno solo mi sembrò quella di un’astronave.

 

 

L’enorme tunnel  centrale  sul  quale  troneggiava  la leva   del cambio con il pomello di legno, lo splendido volante, sempre in legno, al centro del quale ancora una volta spiccava su fondo azzurro il tridente, i meravigliosi sedili in pelle sui quali mi immaginai già adulto, seduto al volante con accanto una splendida ragazza che mi diceva: “con quest’auto puoi portarmi dove vuoi”.

In quel momento decisi che le auto più belle del mondo fossero le Maserati.

Un giorno ne avrei avuta una, solo così sarei potuto guarire da quella sindrome che sconoscevo ma che mi prese tanto profondamente che rinnegai la passione innata che ogni ragazzo, specialmente italiano, ha per la Ferrari.

Riprendendo la via con negli occhi ancora quell’auto da sogno ed arrivato a casa, dal volto imbestialito di mio padre che mi ringhiò dove cavolo ero stato per tornare così tardi, mi resi conto, solo allora, che ero stato a sognare attorno a quella meraviglia per quasi un’ora.

Questa passione o se volete eccitante sbigottimento me lo porto ancora dentro. Nel mio cuore di automobilista c’è stata e ci sarà sempre la Maserati.

Gli esperti sostengono che per guarire dalla sindrome di Stendhal bisogna ricorrere ad antidepressivi o antipsicotici e nei casi più gravi addirittura al ricovero in ospedale.

Non ho fatto mai ricorso a tali terapie e quando a 36 anni potei coronare il mio sogno acquistando la mia prima Maserati, una fiammante Biturbo di un fantastico blu metallizzato, ritenni che ero sulla via della guarigione.

Mai conclusione fu più errata! La sindrome si aggravò e malgrado sia arrivato alla quarta Maserati il senso di piacevole turbamento che mi danno queste auto non si è assolutamente affievolito.

 

In conclusione, con terapie opportune si può guarire dalla sindrome di Stendhal a meno che essa non sia provocata da una particolare opera d’arte che risponde al nome di Maserati.

Fausto Alberghina